
Le soft skills, queste sconosciute
A volte, il mondo del corporate storytelling, o meglio della creazione di contenuti per le imprese, lascia spazio a libere associazioni di immagini in apparenza lontane. Sposalizi inconsueti di concetti che – almeno in teoria – non dovrebbero avere punti di contatto.
Cosa c’entra, ad esempio, un colloquio di lavoro con San Giorgio?
Facciamo un passo indietro.
Da diversi anni ormai, in ambito professionale si sente parlare di soft skills. Si tratta delle cosiddette “competenze trasversali”, che la trasformazione del mondo del lavoro in corso negli ultimi anni ha reso una caratteristica imprescindibile per emergere.
Il Cambridge Business English Dictionary definisce genericamente soft skills le “abilità delle persone di comunicare tra loro e lavorare bene insieme”. Sono soft skills ad esempio la capacità di relazione, l’empatia, la capacità di lavorare in gruppo, la flessibilità, l’abilità nel risolvere problemi, la leadership, la motivazione… ecc.
Tali competenze trasversali, anche dette non cognitive, si contrappongono alle hard skills, le competenze tecnico-scolastiche che un tempo non troppo lontano rappresentavano il porto sicuro per il raggiungimento del successo professionale.
Oggi, si sa, possedere un ventaglio di hard skills non è sufficiente: questo perché, con il progressivo emergere di profili professionali inediti, sono venuti a mancare i contesti di riferimento del sapere nozionistico. Molto più utile, navigando in uno scenario così mutevole, poter fare affidamento su capacità ad ampio spettro, applicabili a compiti e situazioni diverse.
L’insegnamento della narrazione: la lezione di Chesterton
Quale prospettiva dunque per chi si affaccerà al mondo del lavoro nei prossimi anni? O per chi, a carriera già avviata, desideri allinearsi al nuovo panorama?
Quale tipo di formazione è necessaria per apprendere le soft skills?
La narrazione giunge in aiuto.
Nella raccolta di saggi Tremende bazzecole di G. K. Chesterton, è contenuta una riflessione piuttosto famosa (nonché largamente parafrasata in modo errato) sul valore delle storie. Di seguito la traduzione:
Le fiabe […] non hanno colpa di infondere paura nei bambini, o qualunque forma di paura […] non sono le fiabe a formare nei bambini il concetto del male o del brutto; esiste già, nel bambino, perché già esiste nel mondo. Non sono le fiabe a dare al bambino la sua prima idea di orco. Ciò che le fiabe gli danno è la prima idea chiara della possibile sconfitta dell’orco. Il bimbo ha conosciuto intimamente il drago fin da quando possiede l’immaginazione. Ciò che la fiaba gli offre è un san Giorgio che uccida il drago”.
Ciò che la citazione di Chesterton poeticamente sottintende è che la narrazione, per sua natura, propone modelli di interpretazione della realtà, che ci aiutano a interagire con il mondo sociale in cui siamo immersi. Un racconto presenta una sequenza di eventi che accadono a dei personaggi, e si articola e modifica sulla base delle reazioni dei personaggi a tali eventi: è così che gli universi narrativi si connettono all’esperienza umana, diventando strumento di costruzione di significati. Il racconto infatti favorisce l’acquisizione di un sapere di tipo pratico, in grado di influire sulle nostre azioni: un tipo di sapere che, diverso dalle competenze logico-scientifiche, promuove una maggiore conoscenza di sé e l’attribuzione di senso agli eventi della realtà.
Come può la narrazione favorire lo sviluppo delle soft skills?
Aprendo a diversi scenari del possibile e ad altrettanti livelli interpretativi, la narrazione va a stimolare abilità quali la capacità immaginativa, il problem solving, il pensiero critico… le famigerate soft skills oggi tanto ricercate dagli Uffici Risorse Umane.
Ecco dunque che di fronte alla prospettiva reale di un “drago”, l’esperienza del racconto facilita la capacità di orientamento, indicando la possibilità che di fronte al drago si stagli un San Giorgio.
Ecco in che modo la narrazione può servire gli obiettivi di una formazione al passo coi tempi: risvegliando nel modo più naturale – l’uomo è da sempre portato ad ascoltare e raccontare storie – quelle capacità interne di analisi e gestione della realtà esterna che sono riutilizzabili in qualunque contesto. È così che la narrazione diventa pensiero narrativo.
Abituarsi a definire la propria consapevolezza è determinante per sapere che ruolo si assume in un determinato ambito lavorativo (e non solo): una lezione che vale sia per lo stagista al primo giorno in ufficio, sia per il freelance che lavora tra le mura di casa propria, sia per il manager alle prese con una presentazione determinante per le sorti della sua azienda.
A prescindere da quale sia, conoscere il proprio ruolo impone un’autonarrazione: ciascuno di noi ha bisogno di sapere che tipo di San Giorgio è e contro quale drago sta combattendo, per potersi comportare di conseguenza.
Anche le imprese stanno comprendendo l’importanza dell’autonarrazione da parte del proprio capitale umano. Favorire l’individuazione del proprio “punto nave” all’interno dell’organizzazione complessa, determina una velocizzazione degli obiettivi e una maggiore soddisfazione della risorsa nel contesto nel quale è inserita.
Far vedere sempre e comunque l’obiettivo “alto” diventa perciò essenziale e riaggancia l’impresa a concetti a noi sempre molto cari quali il purpose, ovvero il ruolo nel contesto sociale, a quali bisogni immateriali l’azienda offre risposte.
Ci stiamo sempre più spostando da un’economia dei prodotti e servizi a un’attribuzione di senso che – scusate se è poco – è nelle mani di un buon storytelling d’impresa.