Il purpose è molto di più del marketing
Nel suo libro Purpose, Joey Reiman ci dice che oggi moltissime aziende sono gestite ma non sono guidate. «I leader animati da un purpose [invece] non gestiscono: incantano». Poi, più avanti, agli stessi suggerisce: «Piuttosto che iniziative, conducete crociate».
Il paragone è decisamente calzante. Pensateci un attimo. Siamo tra il 1095 e 1096, l’epoca della prima crociata. Papa Urbano II aveva già chiamato da qualche mese tutti i cristiani a intraprendere una pericolosissima avventura: recarsi in Terra Santa e scacciare con la forza i musulmani. A migliaia – tra contadini, borghesi, piccoli nobili – guidati da un grande predicatore di nome Pietro l’Eremita, mettono su un esercito improvvisato e, a piedi, si avviano verso Gerusalemme, abbandonando famiglia, amici, lavoro e relazioni, mettendo a rischio la propria vita. Perché? Certamente in molti lo fanno con la speranza di racimolare qualcosa durante i saccheggi. Qualche nobile cadetto lo fa per diventare padrone di nuove terre. Ma – siatene certi – moltissimi, la maggior parte, lo fanno per la più semplice e potente delle motivazioni: ci credono. Il cristianesimo è per loro l’unico senso dell’esistenza. È il loro scopo nella vita. Il loro purpose, insomma. Ma, soprattutto, è il purpose del loro leader, Pietro, il quale ha passato sei mesi a predicare per tutto il centro Europa e ha entusiasmato gli animi di oltre 12 mila persone. In guerra, poi, metterà prima degli altri la vita in pericolo. E la battaglia sarà vinta. Nel 1099 i cristiani prenderanno Gerusalemme. Non si ripeterà, di fatto, mai più.
La ragion d’essere di un’azienda al di là della brand strategy
Ragioniamo sul termine purpose. Non è facile tradurlo in italiano. La sua ampiezza semantica è tale che nessuna parola da sola ne coglierebbe appieno il significato. Esprime, infatti, sia il concetto di “scopo, obiettivo, fine”, sia quello di “intenzione, convinzione, fermezza”, sia, ancora, quello di “senso, ragion d’essere”.
Ma guardiamo l’ultima traduzione proposta: “ragion d’essere”. Quante volte noi esseri umani ci chiediamo «perché siamo al mondo?», «che ci facciamo qui?», «cosa posso fare perché la mia esistenza non sia inutile?». E pensate ancora: che vita potrebbe condurre un uomo che non si ponesse queste domande? La stessa di una medusa. E credete che un’azienda funzioni in maniera diversa da un essere umano? No di certo. La ragion d’essere di un’impresa non è riducibile alla sua brand strategy o alla sua brand reputation. È qualcosa che va ben al di là e che coinvolge la natura del proprio stare al mondo.
Come abbiamo potuto vedere, il purpose non ha necessariamente a che fare con l’etica. È difficile considerare etico un esercito di violenti fanatici religiosi. Ha a che vedere, però, con le ragioni che conducono la propria vita e per le quali spendiamo tutte le nostre energie. Ma anche con l’intenzione, la volontà che ci muove nel nostro agire. In fondo, un’azienda funziona come un essere umano. È votato alla sopravvivenza, certo; deve adattarsi all’ambiente; procurarsi il sostentamento. Ma un essere umano è sempre mosso da un’intenzione, guidato da un sistema di valori e principi (che siano buoni o cattivi), orientato a raggiungere uno scopo.
Gli universi narrativi e l’identità
Nel suo noto bestseller Sapiens. Da animali a dei. Breve storia dell’umanità, lo storico Yuval Noah Harari fa risalire il momento della grande ascesa dell’uomo verso il ruolo di specie più potente e “distruttiva” del mondo a quella che chiama “la rivoluzione cognitiva”. Il momento in cui, cioè, l’uomo smette di agire guidato solamente da impulsi istintivi votati alla mera e immediata sopravvivenza e comincia a inserire la realtà in delle trame via via più complesse basate su un principio che guida sostanzialmente tutto l’agire umano: la narrazione. E un altro studioso della cultura umana, Jonathan Gottshall, nel suo L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani, ci dimostra come la narrazione sia alla base di, sostanzialmente, qualsiasi processo cognitivo e come questa regoli non solo la comprensione del reale ma anche la volontà, la visione del mondo, l’intenzionalità, la previsione del futuro. La fiction serve soprattutto a costruire significati e visioni del mondo. La mente umana cerca costantemente schemi significativi. Se diamo a una persona un’informazione casuale, che non rientra in alcuno schema, quella persona avrà una capacità molto limitata di non intesserla in una storia. L’espressione massima del dominio della narrazione sulle nostre menti si trova nelle religioni. Si sono imposte come componenti stabili di tutte le società umane per una ragione molto semplice: le fanno funzionare meglio.
In fondo – pensateci – nella nostra visione delle cose noi siamo sempre i protagonisti, gli eroi, di una storia. Una storia costruita a partire da noi e dalle persone che ci stanno vicine. Una storia votata a far vincere questo eroe protagonista e i suoi valori di riferimento. Il tutto è intessuto in una trama coerente, organica e armonica. L’eroe è sempre mosso da un suo purpose, che spesso si scontra col purpose degli altri (gli anti-eroi). E solo l’aiuto di altri che condividono il suo purpose può portare il protagonista a vincere la battaglia e far vincere la propria visione del mondo e riportare l’ordine (o portare il nuovo ordine voluto).
Storytelling aziendale, o l’arte di raccontarsi
Insomma, se è in schemi narrativi che inseriamo tutto ciò che ha a che vedere con la nostra vita e il nostro modo di pensare e di agire, le aziende non sono certo da meno. Il loro ruolo nel mondo, la loro ragion d’essere si può ricondurre a un universo narrativo che può essere tirato fuori proprio tramite lo storytelling. Prendiamo Muji, per esempio. Questa azienda ha una narrazione molto riconoscibile: una vita fatta di semplicità e moderazione, umiltà e autocontrollo, oltre che votata alla serenità e a preservare l’ambiente. Muji sostiene tale purpose offrendo prodotti minimali, semplici, funzionali e pratici. A questo si abbina anche il design dei negozi al dettaglio; il loro purpose è sperimentato dai consumatori nei prodotti che acquistano, mentre li acquistano.
Per non parlare, poi, di Apple. Un’azienda che propone uno stile di vita, più che dei prodotti. Una narrazione in cui il nostro eroe, oltre a essere sempre esteticamente al top, è dotato di strumenti potenti ed efficaci, sempre “pronti all’uso”. Degli strumenti per cui non serve comprendere la logica che vi sta dietro e che rimanda al programmatore; ma strumenti per usare i quali serve solo intuito e intelligenza.
Oltre la brand reputation: cultura aziendale e purpose
Dopo anni in cui gli esperti di marketing hanno preferito lavorare sulle categorie di mission e positioning, oggi si torna a porsi la domanda più semplice e immediata: «Perché esisto?». Tuttavia, non è di solo marketing che parliamo. Come dimostra l’ultimo rapporto di Accenture Strategy – A brand. New. Purpose. Navigating the human and business impact of COVID-19. –, le aziende possono competere sul purpose solo se il purpose permea l’intera organizzazione: sia per ciò che si vende sia per come si opera. Deve essere presente e identificabile in ogni prodotto, servizio, azione o parola. Il 60 percento dei consumatori, infatti, ritiene fondamentale che un marchio dimostri i suoi valori con autenticità in tutto ciò che fa.
In alcuni casi, tutto questo ha dei potenti risvolti etici e filosofici. Già nel 2018, il rapporto di Accenture Strategy To Affinity and Beyond. From me to we, the Rise of the Purpose-led Brand aveva evidenziato come il 62% dei clienti si aspetta che le aziende prendano una posizione su temi attuali e importanti come sostenibilità, trasparenza e rapporti equi con i dipendenti e come le aziende che non si allineano con gli ideali dei clienti, ne pagano il prezzo.
Dipendenti, azionisti, fornitori, clienti, l’ambiente e le comunità in cui le aziende operano devono essere trattati con rispetto e diventare parte integrante del valore generato da un’azienda, e a pieno titolo parte dell’agenda del CEO.
Il profitto non è quindi il punto di partenza, ma la conseguenza di un circolo virtuoso.
Azienda e clienti smettono di essere produttore e consumatore per diventare una comunità che si riconosce in un dato sistema di valori e in una visione del mondo. Ciò non ha a che fare solo con i grandi temi dell’attualità – l’ambiente, lo sfruttamento del lavoro, le diseguaglianze sociali, … – ma anche con i piccoli temi della quotidianità: quei valori che regolano lo scorrere della nostra vita.
Cast Edutainment: raccontare storie, raccontare imprese
Il ruolo di Cast Edutainment – vi avevamo già accennato parlando di corporate communication e, appunto, edutainment – è aiutare le aziende a lavorare sul proprio purpose e a raccontarlo nella maniera più adeguata. Il dato di partenza è la realtà: l’azienda con la sua storia, il suo presente, il suo ruolo futuro. Realtà che viene filtrata e trasformata in prodotti editoriali di alta qualità. Un nostro progetto emblematico è quello per Mutti. Attraverso un onesto lavoro di ricerca, abbiamo conosciuto l’azienda e la sua storia, i suoi metodi di lavoro, le sue politiche verso i fornitori; e abbiamo raccontato un’azienda votata alla qualità a partire dalla selezione della materia prima, per la quale si richiedono determinati standard di coltivazione e di raccolta. Il tutto è stato raccontato attraverso vari linguaggi mediali. È stata costruita una narrazione che, con coerenza e rispetto, porta al consumatore il purpose dell’azienda senza tradire la verità.
E sono proprio verità e rispetto a muovere il nostro agire. Il nostro purpose permea tutta l’impresa, compresi dipendenti e collaboratori, chiamati a lavorare per questo progetto comune senza sacrificare la propria onestà intellettuale.