L’interconnessione è quanto di più crudamente stiamo sperimentando nell’emergenza sanitaria che stiamo vivendo.
Prima di queste settimane che ci hanno cambiato la vita, costringendoci a una quotidianità in quarantena tra le mura domestiche, il tema della sostenibilità, legato alle grandi emergenze mondiali come il surriscaldamento terrestre, è sempre stato molto presente. Noi stessi abbiamo lanciato una seconda serie del podcast “sostenibilità for beginners” nella nostra piattaforma Gliascoltabili, consapevoli dell’importanza di raccontare modelli di vita e di sviluppo che possano rappresentare una direzione, nel segno dell’armonia tra nostri obiettivi, aspirazioni, e rispetto per l’ambiente.
Ancora, tuttavia, non riuscivamo a determinare il senso profondo di questa attenzione. Ci troviamo esposti a narrazioni aziendali che tengono conto di contesti limitati, volte a dimostrare come il modello di business abituale abbia solo bisogno di piccole correzioni che prendono il nome di “economia circolare”, “risparmio di risorse idriche”, “diminuzione della CO2” e via discorrendo.
Poi è arrivata la stretta alle nostre abitudini di vita dovuta al propagarsi del virus Covid 19. Per noi in quarantena da qualche tempo, ascoltare i discorsi dei grandi della terra che affermano come non siano coinvolti da questa realtà ci ha fatto quasi tenerezza. Siamo entrati prepotentemente nella consapevolezza che i nostri destini sono assolutamente correlati, che il mantenimento dell’equilibrio frutto di milioni di anni di lavoro indisturbato della natura sia fondamentale per la nostra sopravvivenza. Di più: ci ha dato la misura della caducità dell’essere umano, a dispetto delle sue convinzioni di poter governare ogni più piccolo e grande aspetto della vita attorno a sé.
Più di qualunque narrazione – e sappiamo bene come il racconto possa cambiare la realtà che ci circonda – l’espandersi di un altro microorganismo vivente non intelligente, ma maledettamente letale, ci ha resi inermi e vulnerabili.
Siamo ancora parte dei “mercati”, possiamo essere oggetto di narrazioni d’impresa da parte di portatori di interesse dei più vari. Ma siamo cambiati dentro. Oggi sappiamo che una singolare abitudine alimentare in un mercato di Wuhan può trasformarsi in una serie di regole coercitive nel nostro quotidiano che cambiano completamente il nostro stile di vita.
Le aziende – perché è riguardo a loro che ci sentiamo di esprimere autorevolmente un parere – hanno interiorizzato da tempo l’importanza del corporate storytelling, per attivare conversazioni efficaci con i propri pubblici di riferimento. Ora che fare? Quale linguaggio adottare, funzioneranno i vecchi piani editoriali social basati su un calendario di consumi?
Se il pubblico è cambiato, allora è arrivato il momento di cambiare anche il modello di business…
Se è vero che il pubblico è cambiato, lo sono anche le persone che compongono le varie organizzazioni. Inevitabile ripensare ai modelli che abbiamo adottato sino ad ora quando si parla di strategia di comunicazione corporate. Sino a ieri le aziende erano in corsa per diventare publisher nei loro settori di riferimento. Newsroom aziendali, team social, coordinati da responsabili comunicazione, sono tesi a offrire lettura del contesto, risposte agli aspetti più critici di un business, attenzione all’ambiente e al futuro dei consumi legati al settore di riferimento. Producono in continuazione articoli e contenuti da dare in pasto agli algoritmi di google (ebbene si, anche questo articolo risponde a questa logica), volti ad esprimere attenzione al reperimento delle materie prime, alle condizioni di lavoro dei dipendenti, ai processi di lavorazione a basso impatto.
Quanto interesse possiamo ancora offrire a questa messe infinita di informazioni? Ancora una volta ci viene in aiuto la narrazione intesa come modello di ordinamento della realtà. Lo storytelling come momento strategico per fissare un’identità e spenderla con orgoglio, costanza, trasparenza. Ci siamo accorti, ora che la nostra vita è stata privata dei momenti di socialità, delle cene, della cultura, aspetti fondamentali del nostro essere soggetti sociali, ma si è portata via anche le trappole che quotidianamente ci facevano correre come criceti sulla ruota. Vuoto consumismo, viaggi attorno al mondo, mobilità estesa a ogni costo.
Quale narrazione proporremo ai nuovi mercati? Che tipo di messaggio vorranno sentirsi raccontare?
La nostra natura è fatta di diversità, competitività. Vivere in una bolla pensando che ambiente, mercati, fornitori siano separati tra loro è stata una temporanea ubriacatura.
È un dato di fatto: la nostra ambizione ci ha portato sin qui, e questo è un aspetto positivo. Abbiamo raggiunto incredibili traguardi, viviamo in un momento di grandi rivoluzioni tecnologiche che non sappiamo nemmeno dove ci porteranno in futuro. La narrazione delle imprese, che assomiglia maledettamente all’Instagram di ciascuno di noi, ci ha posto al centro del desiderio, al centro del processo decisionale, ha esaltato le individualità convincendoci che per essere pienamente noi stessi avremmo dovuto ambire a più obiettivi, più traguardi, più prodotti eccetera eccetera… “Il protagonista sei tu”, recita lo slogan.
Ma la rivoluzione tecnologica in corso, tramite l’intelligenza artificiale, si appropria delle nostre informazioni, anticipa i nostri desideri, dimostra di conoscerci meglio di noi stessi, anticipa le nostre scelte, sulla base della semplice lettura di un feed Instagram. È vero, siamo competitivi, siamo diversi. Ma non siamo soli, e non giochiamo un solitario. Per questo competitività, esaltazione delle diversità hanno senso unicamente se sono riferite al nostro essere sociali, al nostro dipendere profondamente gli uni dagli altri. Non esiste il mio benessere senza il tuo. La sostenibilità di cui parliamo oggi è quella che ci ricorda che se vogliamo vincere, abbiamo bisogno degli altri concorrenti. E il gioco ha sempre un prezzo massimo. Non vale a tutti i costi. Come a Monopoli, i dadi ci riportano alla casella di partenza.
Raccontare la propria specificità, la propria storia, offre le ragioni della propria sostenibilità. Che è fatta di contesto, comunità, appartenenza.
Back to basics: un’azienda che si mostra per quello che è. Un amministratore delegato si fa un selfie dal computer della propria stanzetta in maglietta e cuffiette, un’altra azienda decide di rinunciare a una parte del proprio profitto per supportare un progetto sociale, mentre la pubblicità di un aperitivo rimbomba vuota nelle strade deserte. Sono piccole narrazioni del mondo aziendale che partono da scelte concrete. Mostrare la propria gente, come lavora, le loro famiglie, l’eroismo di un agricoltore che trasporta la sua verdura al supermercato, leggere e raccontare la loro soddisfazione a fare un lavoro “fatto bene”. Il valore narrativo per antonomasia è quello intangibile: quel “fatto bene” che attiene ai beni materiali ma anche ai servizi. Quel qualcosa per il quale siamo disposti a pagare un “quid” in più e a sostenere così un pezzo del sistema produttivo perché ci crediamo. Un “fatto bene” che non ha confini di nazioni, di patrie, di comunità.
È quello che facciamo ogni giorno quando entriamo, da esperti di storytelling, in un’azienda. Lo facciamo in punta di piedi, per respirarne l’aria, parlarne il linguaggio, per conoscerla nel profondo attivando la necessaria empatia: il solo modo per restituirne con obiettività ogni aspetto di bellezza e di criticità. È il primo passo per la valorizzazione del patrimonio narrativo dell’azienda. Parlare con le sue persone, che alla fine sono gente come noi, mica dei robot. La quintessenza della sostenibilità.
Abbiamo bisogno di un contesto per essere sostenibili. O le industrie continueranno a produrre per i robot, in un universo dove l’aria è irrespirabile, i cieli sono neri, i mari senza pesci, le montagne senza foreste. Un universo distopico. Ma questo è il soggetto di un film di fantascienza. O no?