«Potenzialmente – ci dice Michele Bosco – tutti siamo dei media». Per questo le aziende devono comunicare spesso e bene per conquistare spazio mediatico e intercettare domanda latente e consapevole. «Senza una strategia di contenuto – continua – non si possono ottenere i risultati a cui ogni attività di business punta».
Michele Bosco si occupa di questi temi da anni. Di recente ha anche pubblicato il libro Media house. La trasformazione digitale dei modelli di business. Inoltre, è co-founder di Fanism, una media house che gestisce progetti di brand journalism, e founder (e direttore editoriale) di Virtual14.com.
Oggi è con noi per parlare di questi temi e offrire alcuni spunti di riflessione e approfondimento che riprenderemo ancora nei successivi articoli.
Andiamo dritti al punto. Cosa si intende con Media House?
Rispondere a questa domanda, con l’esigenza di riassumere, non è semplice. Ci ho scritto un libro proprio per questo motivo. La Media House è una struttura ibrida, un modello che miscela le competenze di una agenzia creativa e quelle di una redazione giornalistica. Ma che ne sintetizza le caratteristiche in un modo di pensare completamente nuovo. Il digitale ha portato alla proliferazione di media di ogni tipo, che si aggiungono alle piattaforme social su cui si passa sempre più tempo – rendendo le persone media a propria volta –, completando il primo livello di disintermediazione. Proprio il tempo – quello delle persone che popolano i molteplici canali che esistono – diventa l’obiettivo più ambìto delle aziende, per catturarne l’attenzione, per creare con loro una relazione quotidiana e per conoscerne gli interessi, in modo da filtrare informazioni e dati che diventino poi fondamentali per rendere più mirate le proposte commerciali e la stessa offerta di contenuti. Questo ‘percorso’ si innesca, infatti, proprio attraverso i contenuti, da produrre e distribuire in una strategia onnicanale che le aziende più evolute affidano alle Media House, per ottimizzare organizzazione, processi, operatività e maneggiare la complessità mediatica in cui operano e in cui viviamo tutti.
Questo concetto ricorre spesso nei tuoi testi ricorre: le aziende che si occupano di comunicazione e di contenuti devono imparare a “maneggiare la complessità”. Ci spieghi meglio cosa intendi?
Ricorre spesso perché amo approfondire, e questo mi ha portato a contatto con gli studi e le ricerche del prof. Piero Dominici, un punto di riferimento quando si parla di complessità, e non solo. Detto ciò, il punto è che viviamo nel caos. In estrema sintesi, si tratta di questo. Mediaticamente parlando, un esempio concreto – e quanto mai attuale – è la pandemia da Covid-19, che spiega perfettamente il concetto di infodemia: una eccessiva circolazione di informazioni che rende difficile orientarsi per gli utenti, che fanno fatica a comprendere quali siano le fonti affidabili. Da questa premessa nasce l’esigenza di semplificare. Il verbo più importante, per questo motivo, è ‘selezionare’, ed è alla base del lavoro di chiunque si occupi di comunicazione. Bisogna scegliere continuamente i temi da trattare, i format in cui produrre i contenuti e i canali attraverso i quali diffonderli, in modo da offrire al pubblico intrattenimento e una (in)formazione coerente e comprensibile, per conquistare spazio all’interno dello scenario complesso – del caos, appunto – che è il concetto dal quale siamo partiti.
Servirebbero, insomma, dei manager della complessità.
Sì, servono profili dalla formazione ibrida – eliminando la dicotomia tra quella umanistica e quella scientifica, come insegna il prof. Dominici – che abbiano visione e mindset evoluto. Il futuro non è dei singoli, a mio modo di vedere, ma delle organizzazioni che riescano a mettere insieme competenze trasversali, per interpretare lo scenario complesso che stiamo descrivendo in funzione delle attività di comunicazione e informazione, oramai sempre più sovrapponibili. Chiunque sia chiamato a produrre contenuti deve avere capacità di analisi, elaborazione e organizzazione. Un fattore, quest’ultimo, fortemente sottovalutato. Il contenuto è management, prima di tutto.
Questo ci fa venire in mente una cosa: sul sito della tua azienda, Fanism, in una pagina si legge «Il pensiero obliquo è l’unico mezzo per guidare il futuro». Perché?
In passato si parlava spesso di ‘pensiero laterale‘, per ragionare fuori dagli schemi. Io credo che l’evoluzione del pensiero laterale sia il pensiero obliquo, come l’ho definito, per tentare di spiegare la necessità di imboccare una strada nuova, che si sviluppa nell’intersezione tra comunicazione e informazione.
E a proposito di strade nuove, altro concetto che ricorre spesso nei tuoi scritti, sempre a proposito di come le aziende di comunicazione corporate stanno cambiando, è quello di disintermediazione. Puoi parlarcene?
La tecnologia ci ha messo in tasca strumenti che viviamo come ‘luoghi’ e che ci rendono media, così come succede per le aziende. Quanti erano i media 50 anni fa? Quanti sono oggi? Potenzialmente, lo siamo tutti. Un primo livello di disintermediazione che ci consente di dire la nostra su ogni argomento, che ha moltiplicato le voci rendendo lo scenario – appunto, come già ampiamente ripetuto – complesso. Parlo di ‘primo livello’ perché la mediazione, in realtà, come ha dimostrato il caso Trump, c’è, ed è quella delle piattaforme a cui ci iscriviamo. Un secondo, forse definitivo livello di disintermediazione, è nelle piattaforme proprietarie. Ecco perché la comunicazione delle aziende va verso la creazione del proprio ecosistema digitale (ovvero: ti conosco nelle piazze virtuali, i social, poi tento di portarti a casa mia, sul mio sito, sulla mia applicazione ufficiale, …). Resta inteso che l’uso della tecnologia è ormai scontato, e che senza una strategia di contenuto non si possono ottenere i risultati a cui ogni attività di business punta: generare profitto. Il marketing, insomma, aderisce sempre più alla comunicazione e deve puntare su un evoluto modello editoriale, per me.
Quindi, per questo tali aziende dovrebbero organizzarsi come delle redazioni?
Sì. L’esigenza nasce dall’obiettivo di fare qualità in quantità. Non basta più comunicare: bisogna farlo spesso e bene, per conquistare spazio mediatico, per intercettare domanda latente e consapevole. Bisogna produrre una grande quantità di contenuti e, quindi, bisogna strutturarsi per farlo. Parliamo di redazioni evolute, che mettano insieme creatività, contenuti, design, dati e sviluppo. Ecco perché parlavo di organizzazione come fattore basilare e perché è assolutamente necessario un management dalla grande visione. Senza trascurare il fatto che ogni elemento della scala gerarchica, poi, deve essere un bravo manager della propria singola operatività, da intersecare con quella delle altre funzioni.
“Bisogna produrre una grande quantità di contenuti”, dunque. Quali competenze servono, oggi, per poterli produrre?
Bisogna prima di tutto saper scrivere, perché scrivere bene è sinonimo di mente organizzata. Scrivere è alla base del management, dell’organizzazione, oltre che di qualsiasi format in cui si producano i contenuti. Un video nasce da uno storyboard, per esempio. E poi cultura: è necessario conoscere bene ciò di cui si ‘parla’, per essere capaci di semplificare, come dicevo prima, per il pubblico a cui si comunica. Tante persone fanno fatica a capire cosa leggono, cosa vedono, cosa ascoltano. Essere capaci di spiegarglielo fa tutta la differenza del mondo.
E, a proposito di redazioni, di contenuti, di disintermediazione giornalistica, cosa è il brand journalism?
Un tema su cui si scrivono un sacco di fesserie. Ancora oggi tanti lo definiscono come ‘il racconto delle storie dell’azienda’, che invece è lo storytelling. Il brand journalism è informazione prodotta e diffusa DAL brand – non SUL brand, che è solo una piccola parte della strategia complessiva – sull’ecosistema in cui opera, per diventarne punto di riferimento e ottenerne tutti i benefici commerciali conseguenti. Il brand journalism, con etica e trasparenza, genera due risultati importanti: uno per l’azienda, che facendosi percepire come competente potrà ‘avvicinare’ il mercato e vendere, e uno per la comunità, che potrà trovare le informazioni che cerca, prodotte da chi è competente della materia. Ecco perché la mia ipotesi è quella di uno scenario informativo futuro che sarà sempre più verticale.
Quale futuro prevedi, quindi, per il brand journalism così come lo hai definito?
Sarà tutto brand journalism. Lo dicevo quasi dieci anni fa, quando ho iniziato questo percorso di studio e divulgazione. Lo penso tuttora. Ma non sarà per i ‘giornalisti’, così per come si è abituati a pensare la categoria. Il brand journalism è una strategia di marketing che basa le proprie attività sulle leve e le tecniche di un giornalismo evoluto, che non è per categorie obsolete, ma per chi saprà acquisire il mindset necessario. I giornalisti che ancora si nascondono dietro il proprio tesserino, non hanno capito cosa sta succedendo là fuori.
Ora andiamo un po’ più sul filosofico e parliamo di quella che chiamiamo “la realtà”. Qualcuno dice che si tratta solo di un oggetto “socialmente negoziato”. Qualcosa, insomma, la cui percezione cambia in base al tempo e al luogo. Tu cosa ne pensi?
Il discorso è più semplice di quanto si pensi: ognuno di noi ha le proprie convinzioni e, online (ma non solo), tende a cercare fonti e a circondarsi di persone (sui social) che le confermino. Più questo accade, più gli algoritmi ci chiudono in bolle dalle quali è difficile uscire, senza pensiero critico e voglia di confronto. Il rischio, che poi è già assolutamente attuale, è che ognuno si crei la propria realtà parallela, in un mondo in cui la verità ha sempre meno valore.
E quindi come va raccontata questa realtà?
Bisogna essere buone persone e sentire il dovere di dire la verità, in modo oggettivo. Bisogna essere leali e avere valori radicati. La differenza la fanno le persone. E non so se questa è una buona notizia.