Poniamo domande semplici per ricevere risposte rassicuranti: ma è il sogno che genera felicità.
La formazione continua è un mantra, recitato da guru e specialisti dell’assessment delle risorse umane. Per noi di Cast Edutainment è un elemento imprescindibile della nostra indagine quotidiana, sia quando la indirizziamo verso necessità aziendali, che verso programmi didattici per professionisti della sanità o di altri settori.
“Continua” perché è continuo il cambiamento e la necessità di essere sempre al passo con l’evoluzione degli strumenti e delle conoscenze.
Poi abbiamo incontrato la formazione permanente, che ha allargato a un insieme di strumenti capaci di orientare nella consapevolezza: va bene professionalizzarsi, ma comprendere in quale contesto e per quale progetto sociale sarebbe ancora meglio!
Perché allora, davanti a piani di formazione eterogenei oggi reagiamo con scetticismo, altre volte con leggerezza, spesso con noia, in particolare modo quando li vediamo accompagnati all’aggettivo “obbligatori”?
Cogliere la sfida della formazione continua è rispondere a questa domanda, soprattutto in un contesto che tende a semplificare la portata delle tematiche, oltre che a circoscrivere l’orizzonte delle risposte.
Prendiamo ad esempio come una delle più prestigiose università italiane, la Cattolica di Milano, approccia il tema di quello che chiamano: “lifelong learning”. Esso viene contrapposto all’obsolescenza delle nozioni professionali che caratterizzano ogni laureato, dal momento che lascia il suo ateneo per abbracciare una carriera.
Tutto vero. Rimaniamo tuttavia perplessi sull’ancoraggio costante di questo concetto all’acquisizione di competenze professionali per accompagnarci lungo un arco di carriera con aggiornamenti di tipo specialistico, se non tecnico. Andiamo cioè a conoscere sempre più nello specifico strumenti, prodotti, modalità, processi che ci aiutano a decifrare e ottimizzare il nostro ruolo professionale.
Ci troviamo sempre di più immersi in una società che genera specialisti verticali, che segmenta le professioni creando ogni giorno nuove qualifiche: lo dimostra il numero sempre crescente di facoltà alle quali è possibile iscriversi, o ancora l’elevato numero di specializzazioni dei corsi universitari magistrali di specializzazione (si chiama così, un motivo ci sarà…).
Eccoci quindi allevati – perdonateci la provocazione – con i paraocchi, supercompetenti per una singola funzione, ma allo stesso tempo sperduti nel mare delle informazioni che ci circondano, sia vere che false, suggerendoci una falsa percezione di libertà
Formarsi per comprendere. Comprendere per orientarsi. Orientarsi per decidere. E se l’ostacolo non fosse l’ignoranza, ma la stessa conoscenza?
L’iperspecializzazione: un salvagente nel Titanic
La conoscenza dunque è frammentata, verticale, restringe il campo d’azione per scandagliare profondità volte a regolare al meglio meccanismi molto particolari. Ma quando si tratta di comprendere cosa stiamo facendo, perché competere, verso quali obiettivi, porci la domanda di quale azienda stiamo servendo, quale sia lo scopo che essa si è data nella società che stiamo vivendo qui e ora, abbiamo tutti gli strumenti? La confusione che regna sovrana nell’espressione umana che guida il nostro cammino, la politica, è un indice della crisi di conoscenza che stiamo attraversando. Quei riferimenti che determinano una direzione comune, quei fattori che ci fanno sentire appartenenti, non sono inclusi nella sfida della formazione continua propriamente intesa.
Eppure i grandi temi del nostro presente sono assolutamente interconnessi e richiedono risposte complesse. Siamo in grado di “sentire” se non di spiegare come la pandemia rappresenti un tema globale e universale, che ha a che fare con la crescita demografica, l’accorciamento delle distanze, il nostro viaggiare continuo, il nostro mettere in crisi le condizioni della nostra stessa sopravvivenza nel pianeta a causa dello sfruttamento di tutte le sue risorse senza alcuna idea di quale futuro stiamo costruendo per i nostri figli e i figli dei nostri figli. Comprendiamo come il grande nemico da qui al 2030, le emissioni di gas serra, siano dipendenti da fattori globali come lo sviluppo delle società affamate, la loro ricerca di benessere, l’accaparrarsi di risorse economiche, la competitività mondiale che si è innamorata dell’aggettivo “first”, laddove siano Americani, Italiani, Turchi, Ungheresi o Cinesi, il risultato è l’esclusione, in nome di una finta esclusività.
Ma a tutto questo siamo completamente incapaci di dare una risposta che ci permetta di sentirci a nostro agio, di andare a lavorare al mattino con la consapevolezza che stiamo contribuendo a un cammino da fare insieme.
Siamo permanentemente formati, ma continuiamo a esercitare la violenza dell’ignoranza, quando non riusciamo a riconoscere un’emozione e ci ritraiamo non appena essa affiora nella nostra mente, nei nostri occhi.
Provare a osservare la realtà con curiosità, dimenticando il senso di ineluttabilità della nostra piccolezza, spiegare con accettazione dei nostri limiti quali siano le nostre necessità, sorridere davanti alla diversità, sono le premesse per crescere come persone in un “insieme” che ha perduto da tempo il proprio valore semantico.
Cast Edutainment ha deciso di offrirsi la possibilità di fare buona comunicazione, forte comunicazione, senza rinunciare di riportarla a un senso generale, necessario a trovare occasioni di connessione tra persone, organizzazioni, società in cammino. Comunicare quindi non solo vantaggi di consumo, ma opportunità di crescita, opportunità di comprensione del significato di ciascuno di noi, sia che siamo società o individui, in questo contesto.
Il punto non è quanto impariamo, ma cosa.
Viviamo più a lungo, ci innamoriamo di più, facciamo più sport, godiamo di più dei piaceri della vita, viaggiamo di più, aggiungiamo esperienze e consumi che ci fanno sentire nell’ombelico dell’universo, ma sentiamo allo stesso tempo lo smarrimento di un sistema che non governiamo più come i nostri padri e nonni. Loro almeno sapevano chi erano, almeno nel piccolo delle loro famiglie, delle loro piccole comunità. Loro, almeno, sapevano di non sapere.
Allo stesso tempo ci affascinano teorie di complotti nei quali tendiamo a ribellarci il sabato e la domenica per tornare in trincea il lunedi mattina. La sfida della formazione continua non ci aiuta a risolvere le domande feroci che ci poniamo al mattino davanti allo specchio, in questo momento nel quale la società dei consumi si avvita nel mito del progresso, senza poter consumare, peraltro, perché siamo chiusi in casa.
Davanti all’espressione “formazione continua permanente” allora aggiungiamo anche un “di che”?
Provare ad avvicinarci onestamente a temi anche divisivi, offrirne una spiegazione, che non è informazione: quella non resta, quella è su Google, basta saper cercare e poi magari farsi dare una mano dall’algoritmo pronto a suggerirci altre definizioni di cui cercare il significato.
Diamoci il tempo di verbalizzare questo bisogno di orientamento, senza essere anticipati da qualcuno che ci imbocchi la parola che in quel momento non ci viene perché siamo indecisi o stiamo ricercando spasmodicamente quella precisa sfumatura. Avete presente quanto può essere frustrante?
Formiamoci dunque con strumenti che ci parlino direttamente dalla porta delle emozioni, capaci di trasferirci un senso, a prescindere dalla corretta formulazione del concetto, che non mistifichino la realtà, accolgano il parere diverso, aprano il confronto a dibattiti onesti nei quali non vi sia sordità nell’ascolto, ma sincero interesse nei confronti dell’altro. In questo territorio la formazione si fonde con la comunicazione, l’informazione diventa un sacco vuoto – ci viene da parafrasare Pirandello – se non arricchita dai moventi di chi l’ha generata, pronto a confrontarsi nell’ascolto e nello scambio di conoscenza.
Ma se la conoscenza è un bene elitario per definizione, nel momento in cui è mercificata dalla stessa industria universitaria, come possiamo rompere la catena di una nuova aristocrazia della conoscenza?
La conoscenza intesa da Umberto Eco nel suo capolavoro “Il nome della rosa” è questo: una babele di informazioni sorde e che non vogliono comprensione, private dell’emozione che altrimenti le renderebbe vive, che le rende “formanti”. Sacchi vuoti in balia dell’algoritmo di Google o percorsi di formazione capaci di generare il riso, l’autoironia, che ci fa svegliare al mattino con il sorriso e la voglia di ripetere quell’esperienza?
Noi la risposta vogliamo provare a darla attraverso l’edutainment.