La consulenza nella comunicazione istituzionale e corporate ha sempre dovuto affrontare il tema dell’obiettività
In un bellissimo articolo dell’Economist del 18/07/2020, intitolato “Invisible men”, il settimanale britannico analizza il mito dell’obiettività giornalistica e le sue origini. Da professionisti dello storytelling – che applichiamo in tutte le espressioni della comunicazione istituzionale – riteniamo che l’obiettività giornalistica sia un argomento di fondamentale importanza per aiutare le imprese ad approcciare il tema della comunicazione e della generazione di branded content o brand journalism, argomento particolarmente attuale di questi tempi.
La notizia che può sorprendere è che il giornalismo ha vissuto il mito dell’obiettività solamente da qualche decennio a questa parte, mentre agli albori della sua nascita era inteso come opportunità di espressione delle opinioni, di un senso con il quale spiegare la realtà, in cerca della condivisione del prossimo.
Benjamin Franklyn, quando scriveva per il Pennsylvania Gazette, era davvero un irriducibile partigiano. Nella rubrica dedicata alla posta dei lettori, inseriva alcuni suoi scritti sotto falso nome. E utilizzò il giornale per sostenere con forza la guerra contro i francesi, invitando americani e britannici ad allearsi. Erano gli albori del giornalismo, nei primi anni del diciottesimo secolo. E anche i nostri più recenti giornalisti avevano nel DNA una ferrea sottomissione alle proprie convinzioni personali e al proprio modo di interpretare ciò che si presentava ai loro occhi.
Da dove nasce – dunque – questa separazione netta tra cronaca e opinioni, fatti e pareri? Secondo The Economist, il mito dell’obiettività nasce con l’avvento della pubblicità. Inserzionisti e aziende non amano le opinioni e le invettive. Preferiscono espressioni di notizie il più possibili obiettive, per non scontentare alcuno dei loro potenziali clienti. Questo mito oggi sta vacillando davanti a cambiamenti epocali che pongono con forza una riflessione.
Con l’avvento alla presidenza USA di Trump, gli organi di informazione sono stati messi a dura prova nel riportare le evidenti falsità spesso promulgate dal magnate-presidente, alcune di loro di evidente stampo razzista. Riportare la notizia o schierarsi apertamente contro il loro autore?
Mentre il mondo giornalistico americano si interrogava, la risposta è arrivata, ovviamente tempestiva, dai social. Abbiamo già reso conto di come Facebook, Twitter ed altri abbiano bloccato alcuni account del Presidente per incitamento al razzismo. Una scelta partigiana? Ebbene sì, dobbiamo farcene una ragione.
Non esiste narrazione senza una precisa presa di posizione riguardante il “senso” delle cose. Ovvero un modo di intendere la vita che prenda in considerazione il nostro passato, il contesto del nostro presente e l’idea che ci facciamo del nostro futuro. Tutto questo, abilmente shakerato con i moventi individuali, fa dell’opinione il sale dell’ambizione umana, delle azioni per cambiare il mondo, del convincimento come strumento per ottenere i propri obiettivi. È l’umana essenza, bellezza. E non ci possiamo fare proprio niente.
Cosa abbia a che fare con la comunicazione corporate, con lo storytelling d’impresa, e in qualche modo con le strategie marketing delle aziende, o con l’attività di formazione delle risorse umane – ambiti di indagine e consulenza di Cast Edutainment – tentiamo di spiegarvelo qui di seguito.
Fact checking, fake news: le aziende sono sempre sul banco degli imputati
Negli ultimi tempi sono molte le aziende che si affacciano a un diverso modo di fare comunicazione corporate, basato sulla trasparenza e sulla fiducia di un rapporto con lo stakeholder. I bilanci di responsabilità sociale, i modelli di governance, persino i modelli organizzativi si ridefiniscono nello sforzo di generare un impatto razionale ed emotivo di condivisione di un set valoriale. Non è partigianeria alla Benjamin Franklyn? Dalle multi utility come Enel alle assicurative come AXA, dalle manifatturiere automotive come Pirelli ad aziende tecnologiche come Siemens, tutte le grandi aziende redigono annualmente bilanci di sostenibilità basati su una storia, ovvero un ordine ragionato di fatti che insieme determina una visione, una proposizione di senso.
Si tratta di passi in avanti molto rilevanti da salutare con entusiasmo, e che ci rimettono quindi in pace con il contrapporsi tra obiettività e mistificazione, tra realtà e immagine del reale.
Da troppo tempo le imprese sono state messe sul banco degli imputati per attività volte a rappresentare diversamente la realtà. Il marketing spesso, con le sue strategie di comunicazione ha determinato la linea da seguire. Un diserbante va chiamato “strumento di preservazione della salute della pianta”, un rifiuto plastico va definito “risorsa energetica” e così via. Tempi passati, improvvisamente invecchiati davanti alla pressione insostenibile dei social nei quali tutto si mescola, tutto si confonde: la notizia vera con quella falsa, l’invettiva odiosa con l’espressione ragionata di un parere, l’analisi scientifica con l’auspicio suggestivo di una soluzione. Come dei bambini che non hanno mai imparato a nuotare siamo stati buttati in acqua e ci siamo dati da fare per stare a galla. Per questo non accettiamo più lezioni. Possiamo interloquire direttamente con una multinazionale, guardare negli occhi il suo CEO e sostenere il suo sguardo pensando che stia facendo bene o male, eventualmente formandoci un parere sul suo operato.
E così, come da un lungo letargo, l’impresa si è svegliata e ci sta chiedendo, come Marty McFly di Ritorno al Futuro: Chi sono? Dove mi trovo? Quanto ho dormito?
Lasciamo dunque che sia questo famigerato stakeholder a definire l’essenza. Partiamo dalla storia, dalla contestualizzazione del presente e da un obiettivo sostenibile futuro per ritrovare e far emergere quel patrimonio intangibile del brand che siamo in grado di valorizzare. In qualche modo è quello il dna che determinerà il nostro sviluppo e le nostre scelte.
Corporate storytelling: raccontare la realtà è un’opinione?
Cast Edutainment fa corporate storytelling. Definisce piani editoriali per i propri clienti, genera contenuti, sviluppa formati video, podcast e progetti integrati di comunicazione grazie ai quali le aziende si rivelano, magari un po’ curvy, con qualche difettuccio, ma sincere, reali. Persone pronte a parlare alle persone. Non ci vuole il next guru della comunicazione per rivelarci quanto già sappiamo per esperienza personale: le bugie hanno le gambe corte e la trasparenza è un valore che ci può restituire dignità e ruolo in un contesto nel quale comunque vale la pena di prepararci al backlash, al crisis management, laddove detrattori organizzati e militanti (partigiani, pardon) si mettono in testa di rivolgerci le loro attenzioni.
Molte aziende ben organizzate (pensiamo a Eni, per la quale Cast Edutainment è un contributor di contenuti per la sua comunicazione corporate) si sono dotate di una vera e propria Newsroom, formata da comunicatori e giornalisti, grazie alla quale rispondere autonomamente alle situazioni di crisi che man mano sui media – e ancor più sui social – si vanno determinando. Raccontare una realtà, tornando al titolo di questo paragrafo, è dunque un’opinione. Una scelta deliberata di senso. Che per essere compresa richiede un lavoro rigoroso di formazione del proprio pubblico allo sviluppo del proprio senso critico, un invito ad elevare i propri filtri di interpretazione della realtà per farsi un’idea, un’opinione, e compiere scelte consapevoli.
Facile? No. Complicato? Non necessariamente.
Luca Mercurio del Corriere della Sera, citando lo stesso articolo dell’Economist che abbiamo riportato a inizio del nostro articolo, punta il fuoco sul concetto di “Moral Clarity”, chiarezza morale, introdotto in un tweet dal giovane giornalista americano Wesley Lowery. Chiarezza morale come faro di ispirazione per l’azione giornalistica, definendo il contesto di riferimento e i fatti che lo compongono, come ingredienti per formarsi un’opinione. Chiarezza morale che diventa etica del business, parlando del nostro mondo, quello della consulenza di comunicazione per le imprese. Aiutare le aziende a esporre i fatti, delimitando il contesto, includendo tutti gli attori, siano essi risorse umane, pubblico di riferimento, filiera di produzione o attori sociali.
La chiarezza morale possiamo esercitarla attraverso la comprensione della realtà, la scelta di fatti che ci permettono di darle un volto, una dimensione. Quando invece i fatti vengono manipolati, maltrattati, piegati a un obiettivo, allora non si agisce con chiarezza morale. Non si fa buona comunicazione corporate.
Cast Edutainment produce branded content basandosi su fatti. Li scegliamo grazie a un’attenta azione di studio, li ordiniamo secondo una strategia di comunicazione, rispettando il pubblico di riferimento, cercando tra i moventi delle persone quei valori che possono essere un denominatore comune per immaginare il futuro.