Se nella prima parte dell’intervista – che trovate qui – vi abbiamo parlato di come è fatto il cervello, di cosa sono i processi cognitivi e di come vengono messi in gioco attraverso l’esperienza, questa volta il prof. Vincenzo Russo ci fa vedere come tutto questo funziona nell’ambito dell’apprendimento, della conoscenza, del rapporto con la tecnologia e la sovrabbondanza di notizie. Vediamo anche come l’edutainment possa essere una buona chiave per controllare fenomeni altrimenti incontrollabili.
Lo ricordiamo: il prof. Russo insegna Psicologia dei Consumi allo IULM di Milano ed è Coordinatore del laboratorio di Neuromarketing “Behavior and Brain Lab”.
Adesso pongo un tema diverso: quello dell’apprendimento. Noi siamo abituati a un sistema di formazione per il quale esistono i bambini a cui vengono insegnate delle cose; poi i bambini crescono e a quel punto il lavoro finisce. E quindi mi vengono alcune domande. La prima è: questo paradigma può essere cambiato? Si può, cioè, apprendere anche da adulti?
Assolutamente sì! C’è tutto filone nuovo che si chiama neuromanagement se che intende studiare le scoperte neuroscientifiche e applicarle al mondo del management, all’interno del quale, ovviamente, c’è tutta la fase di autoapprendimento. Ecco, esistono oggi dei corsi – sono quelli che facciamo anche noi come gruppo di ricerca – di neuro-selling, di neuro-leadership, … Cioè, una volta che noi sappiamo come funzioniamo, utilizziamo queste conoscenze neuro-scientifiche per migliorare le nostre capacità di leadership o le nostre capacità di contrattazione nella vendita (per questo si chiama neuro-selling).
Quindi, non c’è dubbio che, oggi, una conoscenza del funzionamento cerebrale – non per una sorta di riduzionismo, ma per capire come siamo fatti – può essere estremamente utile, non solo per comprendere come sia possibile apprendere anche durante la fase adulta, ma addirittura potrebbe essere anche un’utile indicazione per poter imparare a utilizzare tecniche molto più efficaci anche per l’apprendimento dei bambini.
Ed ecco che mi serve su un piatto d’argento la seconda domanda che volevo farle: in che modo le neuroscienze possono aiutarci – tenendo conto che abbiamo anche i nuovi media a disposizione – a modificare l’insegnamento e quindi l’apprendimento?
Ci sono due questioni e due considerazioni da fare. 1) i nuovi media e 2) il cervello. “Nuovi media” significa sfruttare le potenzialità che ti offrono i media per fare per fare degli insegnamenti molto più coerenti con quello che sta succedendo nel cervello di adolescenti e bambini. Questi sono sempre più abituati alla cultura dell’immagine. Sono sempre più abituati alla cultura della rapidità, del “cotto e mangiato”, del “oggi, subito, immediatamente”. Faccio un esempio per capirci. I miei studenti, che hanno un’età media di 22 anni, considerano quello che la mia generazione ha vissuto come uno dei film più belli della propria esperienza – Mediterraneo – come un film noioso, perché lento. Loro sono capitati a Scandal. Sono abituati a una comunicazione molto più rapida, molto più veloce. Ma infatti abbiamo visto come il cinema e le serie tv, che ne sono appunto la perfetta rappresentazione, sono cambiati: una logica molto più veloce e molto più rapida, con colpi di scena, sali e scendi continuamente. Noi siamo stati abituati invece a una cultura della lentezza, soprattutto appunto nella narrazione cinematografica. Detto questo, io credo che chi si occupa di apprendimento – soprattutto nei bambini – debba imparare quali sono gli elementi che caratterizzano il loro vissuto, da una parte, e anche quello che si potrebbe fare con le nuove tecnologie. Io ricordo con estrema noia le lezioni di storia o di geografia. Oggi puoi fare storia o geografia facendo viaggiare le persone attraverso Google Earth o tramite meccanismi di realtà aumentata o realtà virtuale che a volte certi insegnanti si sognano, perché non conoscono queste metodologie. Però potrebbero essere degli ottimi strumenti per poter creare engagement. Ma questo ha a che fare con gli strumenti.
I nuovi media, quindi. Poi c’è il cervello, diceva.
Esatto. Dall’altra parte ci sono le neuroscienze. Forse una migliore conoscenza del funzionamento cerebrale può non insegnare nuove tecniche, ma far capire perché alcune funzionano meglio di altre. E allora, per esempio, sappiamo che il nostro cervello primario, quello più antico, si lascia particolarmente coinvolgere quando si rispettano alcuni criteri. Per esempio, la personalizzazione del messaggio. “Personalizzazione” ha che fare con l’essere riconosciuto come individuo. Quindi, perché non utilizzare questo piccolo trucco per ingaggiare, per coinvolgere – non so – magari non dico come fa la nutella che permette di mettere il proprio nome sul barattolo per ricordare che noi siamo come la nutella… ma il meccanismo è quello. Cioè la personalizzazione, la concretezza, la tangibilità, il contrasto: sono tutti elementi che al cervello primario piacciono e piace a riconoscere. Così come lo storytelling empatico. E allora se devi raccontare qualcosa, raccontala in maniera empatica, non semplicemente attraverso numeri o statistiche, perché tanto questa roba qui non ci piace. Ma se la stessa cosa la racconti in termini empatici, è molto più probabile che tu possa apprendere con più facilità. Ecco, le neuroscienze oggi ci dicono perché alcune cose funzionano rispetto ad altre. E questo credo che sia un segreto che dovrebbe essere non più segreto per chi si occupa di apprendimento.
Decisamente. Ritornerò nuovamente sul tema dell’apprendimento, ma vorrei passare prima attraverso un altro concetto. Poco fa ha parlato di cinema e serie tv dicendo che è ciò che ci piaceva prima oggi non ci piace più. Quindi anche l’intrattenimento è cambiato? Ciò che ci divertiva qualche generazione fa adesso non ci diverte più, o, almeno, non diverte tutti allo stesso modo?
È proprio così. Oggi c’è una velocità di narrazione che sicuramente oggi piace di più rispetto a prima. Questo non perché noi siamo più intelligenti, ma semplicemente perché il ritmo della comunicazione è cambiato. Oggi i ragazzi sono molto più abituati al multitasking; sono abituati all’immagine piuttosto che alla lettura e al testo scritto. Questo è un problema. È un problema perché porta anche ad un aumento dell’analfabetismo funzionale. Il dato che continua a girare da alcuni scritti e alcuni paper è che la capacità di comprendere un testo scritto tende a essere sempre più bassa. A volte pure io ricevo delle e-mail in cui le persone non capiscono quello che abbiamo scritto nella community del sito. E ti chiedi «ma come si fa a non capire il significato?» E questo è un problema. Quindi, se da una parte abbiamo degli stili di narrazione molto più veloci, molto più immaginifici e molto più emozionali, dall’altra parte, però, abbiamo da contraltare perdiamo alcune competenze come l’apprezzamento della lentezza, l’apprezzamento della narrazione letteraria, con ovviamente eccezioni. Però una bella percentuale di persone sta per l’appunto perdendo la passione e la comprensione del testo scritto.
E questo è un tipo di problema che viene da ciò che dicevamo all’inizio: l’esperienza.
Certo, certo. I nostri cervelli sono predisposti per diventare – tranne che nei casi in cui ci sono delle patologie – tutto e il contrario di tutto, dipende appunto alle stimolazioni. Le stimolazioni sono importanti già durante la fase fetale. Sappiamo che stimolare il feto con la musica o con la voce della mamma già può produrre delle predisposizioni, delle gradevolezze. La voce della mamma o alcune sonorità sono molto più apprezzate dai neonati proprio perché le hanno sentite durante la fase di gestazione. Quindi questo ha un effetto sullo sviluppo cerebrale. Così come le stimolazioni. Le stimolazioni affettive, le stimolazioni tattili, stimolazioni sonore, olfattive sono molti importanti nei primi anni di vita. E questo vale per qualsiasi sviluppo celebrale.
Ecco, allora adesso torniamo alla questione apprendimento. Abbiamo visto che la cultura dell’immagine e dello stimolo visivo offre molte opportunità ma ci pone anche di fronte a diversi problemi. Mi chiedo, dunque: prendere consapevolezza di questi problemi può aiutarci a generare nuovi sistemi di insegnamento e apprendimento che, utilizzando gli stessi strumenti tecnologici in questione, riescano a superare il problema?
Sì. Diciamo che noi abbiamo una predisposizione, una dominanza sensoriale – quella visiva – che è biologicamente predefinita: il 50 per cento delle cellule del cervello è coinvolto direttamente o indirettamente nella visione. Soltanto, per esempio, l’uno per cento è coinvolto sul gusto e sull’olfatto. Ecco perché, se voglio insegnare a un sommelier il riconoscimento degli odori, devo fare molta fatica. Però posso farlo. Può migliorare. Io credo che, dando per scontato che la capacità e il dominio della visione sono abbastanza sviluppate nel nostro cervello, beh, permettere ai bambini di poter utilizzare altre sensorialità è un elemento fondamentale. Sviluppare la loro capacità di ascoltare le musiche, di sentire i profumi, … questo aspetto è fondamentale. È una cosa che abbiamo sempre fatto in maniera naturale. Oggi forse avere una maggiore consapevolezza di questi aspetti può essere molto utile, anche perché – e poi andiamo sul mercato, anche se solo sul marketing olfattivo – tutto ciò che è poli-sensoriale in qualche modo aiuta la memorizzazione. Quindi l’uso dei profumi, l’uso del del sound, … modifica quello che noi percepiamo e ci può aiutare anche a memorizzarlo. Questo aspetto, credo che, per chi si occupa di apprendimento, sia estremamente importante. A questo argomento ho dedicato un testo che è stato appena pubblicato – Neuroscienze a tavola – in cui racconto come il nostro cervello si modifica e modifica la percezione della realtà grazie, appunto, alle sensorialità esterne, apparentemente estranee al gusto ma che in realtà modificando la percezione che abbiamo del gusto, e questo perché il cervello si lascia condizionare delle stimolazioni.
La parola edutainment mette insieme i due i due argomenti che abbiamo affrontato prima: l’istruzione, education, e l’intrattenimento, entertainment. Lei pensa che questo possa essere davvero un modo nuovo sia di insegnare ma anche fare comunicazione?
Sì, sicuramente. La possibilità di utilizzare meccanismi di coinvolgimento divertenti è chiaro che diventa un’operazione interessante anche soprattutto per gruppi di adulti. Bisogna però fare in modo che l’esperienzialità legata appunto al divertimento, all’aspetto ludico possa poi diventare un’operazione non fine a se stessa ma di apprendimento da poter giocare su altri tavoli. Nel senso che, se volessimo prendere un po’ la storia della psicologia della formazione, sappiamo benissimo quanti sono stati i tentativi di formazione outdoor. A volte questi tentativi sono falliti perché, avendo una bella esperienza divertente coinvolgente, è stato difficile poi – ma forse per una limitata capacità di riflessione proposta dopo l’esperienza – trasformare quell’esperienza in modo che potesse diventare una competenza da giocare in altri contesti. Cioè, della serie “sì, bello, bello, ma funziona soltanto in quel contesto lì”. Se io sono in barca a vela e imparo a lavorare con quel gruppo, lavoro bene con quel gruppo soltanto in barca a vela. Non c’è stata la capacità… ma, ripeto, non perché il sistema non abbia funzionato, ma perché non sono create le condizioni per poter trasformare quell’esperienza in qualcosa di consolidato al punto di vista razionale. Quindi una competenza trasversale da giocare a 360 gradi anche oltre la barca a vela che mi sono fatto con gli amici.
Quindi è anche una questione di obiettivi. Cioè, devo aver ben chiaro dove voglio arrivare con quegli strumenti, altrimenti si rischia che gli strumenti diventino l’obiettivo.
Sì, ecco, infatti. Il rischio che lo strumento diventi un fine e non più il mezzo. Mentre l’operazione deve essere appunto fare in modo che ci sia la capacità di razionalizzare a posteriori e di generalizzare quella competenza in contesti molto diversi rispetto a quelli in cui abbiamo operato.
Invece, per ciò che riguarda la percezione, lei crede che queste nuove esperienzialità che stiamo facendo grazie a questi nuovi strumenti alterino la nostra percezione della realtà? E penso a fenomeni quali l’infodemia, le fake news, il populismo, …
Qui si apre un fronte, nel senso che il problema sta proprio in questi termini. Ciò che noi percepiamo è sempre una ricostruzione. I sensi recepiscono alcune cose. Le aspettative che io creo possono modificare quello che i miei sensi hanno recepito. È chiaro che i sensi non possono essere completamente stravolti. Io dico sempre, per esempio, ai miei produttori di vino «un vino cattivo rimane cattivo, ma uno buono lo puoi far percepire migliore». E questo vale anche per le fake news. Una notizia può essere verosimile ma se la condisci sembrerà ancora più verosimile. Non andiamo a scomodare la comunicazione italiana, quella politica. Andiamo su altri terreni meno scivolosi, come appunto la comunicazione politica trumpiana. Quando ci fu l’elezione, alle 7 del pomeriggio veniva data per certa all’ottanta per cento la vittoria di Clinton. Questo perché agli exit poll gli elettori si vergognavano di dire che avevano votato per Trump, fondamentalmente. L’abbiamo rilevato: anche la più grande azienda di exit poll americana ha parlato di “shy trump effect”, cioè [ride] del fatto che si vergognavano di avere votato per Trump. Però c’è da dire una cosa: qualche mese prima della vittoria di Trump, girava un articolo neuroscientifico che analizzando lo stile di comunicazione di Trump dava per certa la vittoria di Trump. Perché? Perché ha utilizzato uno stile di comunicazione fortemente emozionale e quindi molto convincente. Ma non perché giocava sulla dimensione razionale, perché giocava su quella emotiva. Come ha fatto? Frasi facili, facilmente comprensibili, fortemente impattanti. Se lei prende il programma relativo all’immigrazione della Clinton: dieci punti, uno più complicato dell’altro. Se lei prende il programma di Trump, un punto: costruiamo il muro. Semplice, a prova di cretino. L’uso di immagini facilmente condivisibili sui social. La rappresentazione isomorfa del personaggio con la bandiera americana: lui è sempre dietro o davanti alla bandiera americana, si veste con la bandiera americana, vuole rappresentarsi come l’americano puro, eccetera eccetera. Cioè, mai parlare i dati e mai parlare di statistiche, cosa che anche democratici poi gli criticarono. E ovviamente, detta in questi termini, battendo sempre, ripetendo sempre le stesse cose, queste diventano una verità. Ma prendiamo l’Italia. In italia l’immigrazione è il problema fondamentale. Poi vai a guardare i dati e scopri che il grado, il tasso di immigrazione che noi abbiamo – di immigrati che rimangono in italia e quindi la rappresentazione pro capite che noi abbiamo – è molto ma molto più basso rispetto alla Germania, la Francia e l’Inghilterra. Allora è un falso problema. Sì, ma se continuo a dirti che il problema è l’immigrazione è chiaro che quello diventa la verità. Quindi diciamo che oggi grazie, tra l’altro, ad una comunicazione molto più superficiale, grazie appunto ai social, grazie ad una comunicazione che viene viziata da questi meccanismi, è chiaro che tutto può diventare una grande verità, ma in realtà sono delle colossali fake news. E c’è chi ci marcia, ovviamente.
Infatti mi viene in mente il famoso frame di Lakoff “non pensare all’elefante”. E mi chiedo: ma con il proliferare dei media, il “non pensare all’elefante” non rischia di diventare un elefante ripetuto mille volte che circola intorno?
Assolutamente. Se uno dice “non pensare all’elefante”, all’elefante ci pensi. Come fai a non pensarci? Se poi lo ripeti… Poi d’altra parte c’era Vygotskij che studiava la capacità persuasiva delle minoranze: ripetizione ossessiva delle cose in maniera coerente di fronte a qualsiasi negazione. Diventa una verità. Se lo si fa con le minoranze figuriamoci con chi ha qualche potere in più… Stiamo parlando di Lev Vygotskij, siamo intorno al 1950–55 quando ancora internet non esisteva. Figuriamoci cosa non direbbe oggi di fronte a questa comunicazione pervasiva, autocelebrativa e incapace di mettersi in discussione e di mettere in discussione perché non parla mai di dati.
E allora adesso vado in chiusura con una domanda che ci apre una prospettiva positiva sul futuro. Sono veri tutti questi problemi però immagino rimanga sempre vera la possibilità che noi possiamo controllare e governare questi fenomeni.
Sì. Diciamo che il mondo del neuromarketing – che conosco molto meglio rispetto agli altri canali su cui stiamo iniziando a lavorare, per esempio la neuro-politica a cui abbiamo fatto qualche cenno – ci fa capire che se noi spieghiamo ai consumatori quali sono appunto i meccanismi cerebrali che ci fanno funzionare o meno alcune cose, questi sono un pochino più consapevoli. Ricordiamoci, però, che la dimensione emotiva è talmente ingaggiate che è difficile da controllare. Anche io, che conosco molto i trucchi del marketing, ci casco perché mi lascio condizionare dal prezzo di un prodotto, dall’etichetta di una bottiglia, … E poi, come dire, il cervello ci mette il suo, perché le aspettative attivano parti del cervello che poi vanno a confermare quello che ci siano aspettati di trovare. Per cui, sicuramente la conoscenza del funzionamento cerebrale – quindi delle neuroscienze – come come gli errori che commettiamo ci può aiutare, ma dobbiamo essere fortemente capaci di metterci in discussione. Molte di queste riflessioni le faccio, per esempio, con i medici. Vai a dire un medico che la sua diagnosi può essere sbagliata perché ha funzionato in passato ma non è detto che funziona in futuro. La propria convinzione, la propria superiorità professionale non li mette in discussione. E allora devi trovare, forse in te stesso, e riconoscere gli errori che puoi commettere – i bias – ma farti aiutare. La triangolazione è un meccanismo che funziona. Confronta la tua diagnosi con quella che potrebbe fare il tuo vicino, il medico tuo amico nella stanza di fronte. Questo meccanismo della di triangolazione può essere d’aiuto: così come triangoliamo sempre il dato per cercare di ridurre appunto l’errore, credo che triangolare anche in questi casi sia fondamentale. Per cui sicuramente avere le conoscenze su questi aspetti ci aiuta a essere più capaci di controllare i nostri errori, ma a volte dobbiamo servirci anche di una forzatura un pochino più consistente perché i nostri errori sono legati a meccanismi emozionali che sono molto difficile da controllare.