Di una scuola delle competenze da contrapporre a una scuola delle conoscenze si parla, più o meno a proposito, ormai da qualche decennio. In diversi casi con quell’enfasi proclamatoria tipica di chi esprime opinioni su argomenti che non conosce. «Basta con il nozionismo – si dice –; i nostri ragazzi non sono delle scatole vuote da riempire di informazioni!». L’osservazione sarebbe anche giusta, di per sé, se solo ci si intendesse su cosa sono le competenze e a cosa servono.
Una riflessione approfondita su questo punto, infatti, renderebbe di lampante evidenza quanto le competenze, senza le conoscenze, non solo non servono, ma probabilmente non esistono nemmeno. Si possono avere, al massimo, delle abilità; non certo delle competenze adatte ad affrontare la società dei prossimi decenni. Come afferma Maurizio Tiriticco, studioso di sistemi educativi, «conoscenze e competenze sono due facce della stessa medaglia: le conoscenze senza competenze sono cieche; le competenze senza conoscenze semplicemente non esistono!».
Pensare con le mani, fare con la testa
Ormai – parafrasando ancora Tiriticco – siamo tutti d’accordo che un sistema di educazione, istruzione e formazione – in una società come la nostra, complessa o, addirittura, iper-complessa – debba fare in modo che le conoscenze raggiungano tutti e per tutta la vita. E che i processi di insegnamento e apprendimento, oggi, non possono essere modellati sulla “scuola senza mani” di un tempo, quella “fatta solo per la testa“. In una società tecnologicamente avanzata, non c’è attività manuale che non richieda anche l’incremento continuo e costante di operazioni cognitive. È impossibile ormai fare distinzioni tra la mano e la mente: «È giunto il tempo in cui dobbiamo pensare con le mani e fare con la testa!».
Lavorare per competenze, dunque, non significa affatto eliminare le conoscenze, o sostituirle, come spesso scrive qualche commentatore, ma integrarle con le abilità, le procedure, il pensiero autonomo, critico, responsabile. Non si tratta di memorizzare soltanto informazioni che possono essere dimenticate nel giro di qualche settimana, ma di un apprendimento acquisito in profondità!
Di certo non un compito facile. Rimanendo ancora nell’ambito scolastico, bisogna fare in modo che lo studente entri in possesso delle conoscenze essenziali attraverso scelte didattiche significative, che implicano una forte integrazione delle discipline; pratiche laboratoriali, che partano da situazioni concrete, stimolanti; che si facciano realizzare piccoli progetti di difficoltà crescente, cosi da abituare gli studenti a formulare ipotesi e procedere per approssimazioni successive; avvalendosi di strategie didattiche tali da stimolare l’abitudine a costruire modelli e favorire l’acquisizione di comportamenti produttivi.
Imparare a imparare: ovvero come ti porto verso la knowledge society
Se a questo punto ci poniamo quella semplice domanda che dovremmo porci in continuazione – Perché? –, la risposta ci porterebbe dritti al cuore della nostra riflessione: costruire una società della conoscenza – una knowledge society, come si può anche chiamare – significa sviluppare competenze tali per cui si possa imparare durante tutto il corso della vita. E non imparare in maniera rapsodica e superficiale, ma imparare anche nuovi mestieri; imparare a comprendere il mondo che cambia e che diventa sempre più complesso; riuscire a cambiare radicalmente la propria professione di fronte all’avanzare dell’intelligenza artificiale.
La knowledge society – che abbiamo costruito e che stiamo ancora costruendo – è quella società in cui il ruolo della conoscenza assume, dal punto di vista economico, sociale e politico, una centralità fondamentale nei processi di vita, e che fonda quindi la propria crescita e competitività sul sapere, la ricerca e l’innovazione. È una forma di conoscenza, dunque, che ci pone sempre di fronte a cambiamenti radicali che riguardano in primis la nostra vita. Cambiamenti di fronte ai quali non possiamo più permetterci di arroccarci nel nostro fortino di sicurezza, in una posizione di violento rifiuto, o di guardare a soluzioni sovversive di stampo populista. Questo purtroppo è l’atteggiamento che hanno adottato molti membri di una generazione – quella dei cosiddetti boomers – cresciuta in un’epoca fatta di certezze e di pochi stravolgimenti. Un’epoca in cui bastava acquisire un mestiere una volta per tutte e poi lo si portava avanti indisturbati fino alla pensione.
Quel mondo non esiste più. I primi a capirlo – sulla propria pelle, sulla propria psiche e, soprattutto, sulle proprie tasche – sono stati i millenials, la generazione degli sconfitti del mondo del lavoro, quelli che, nonostante l’elevata mole di conoscenze e titoli di studio, non riesce davvero a entrare nel mondo produttivo e occupare “i posti che contano“ perché tutti occupati, spesso, da quei boomers le cui competenze sono ben lungi dall’essere aggiornate e poco disposti a cedere il passo.
Le nuove esigenze formative e la learning society
D’altronde, la pandemia in corso ce lo sta dimostrando in maniera sempre più lampante: le consistenti mutazioni sociali, politiche, economiche, antropologiche, ma soprattutto tecniche e tecnologiche che caratterizzano il nostro tempo rendono necessario un costante aggiornamento delle conoscenze da parte di ogni membro della comunità che voglia essere parte attiva di essa. In altre parole, l’esigenza formativa emergente è quella di una continua revisione e riqualificazione delle proprie conoscenze e competenze da spendere in ambito lavorativo e professionale. Come scrivevano, nel 1995, Édith Cresson e Pàdraig Flynn nel Libro bianco su istruzione e formazione della Commissione Europea, «sempre più la posizione di ciascuno di noi nella società verrà determinata dalle conoscenze che avrà acquisito. La società del futuro sarà quindi una società che saprà investire nell’intelligenza, una società in cui si insegna e si apprende, in cui ciascun individuo potrà costruire la propria qualifica. In altri termini, una società conoscitiva».
Non a caso, il primo e più immediato dei significati associati all’espressione società della conoscenza riguarda la rilevanza crescente del sapere in quanto risorsa per la vita individuale e collettiva.
Ed ecco perché una delle espressioni più pertinenti legate a quella di knowledge society è quella di learning society. Sicuramente efficace perché evidenzia ancora di più come la conoscenza, nella nostra nuova società, sia pervasiva, in tutte le dimensioni della vita associata e individuale, nel lavoro, nell’economia, nelle politiche di sviluppo, nella stessa distribuzione e concentrazione mondiale del potere e della ricchezza.
Il ruolo di chi si occupa di formazione
Se, dunque, il mondo verso cui ci dirigiamo è pervaso dalla necessità di conoscere e di apprendere, è difficile pensare che questo ruolo possa essere assolto in solitudine e autonomia dalla scuola tradizionalmente intesa. Vanno pensati nuovi percorsi e nuovi processi.
In realtà, c’è da notare, che diversi enti e aziende si sono già attrezzati. Abbiamo mostrato in diversi articoli precedenti come, ormai, aziende e istituzioni vivano la necessità di produrre contenuti di qualità e di supplire a numerose carenze formative e informative (spesso dettate dall’infodemia) nella società.
Non solo, le tradizionali media company, ormai, sentono sempre più impellente il bisogno di offrire sia prodotti di qualità molto elevata sia contenuti per la formazione. Che si tratti di lifelong learning, di formazione mirata o di divulgazione culturale e scientifica, i tradizionali sistemi di insegnamento e apprendimento non sono più adatti alle nuove esigenze. È per questo che l’edutainment sta pian piano diventando il nuovo parametro di creazione dei contenuti informativi e formativi. Sperimentare nuovi sistemi di apprendimento, che tengano presenti le scoperte in ambito di neuroscienze e cognitivismo, è ormai una prassi indispensabile. Certo, essere attrezzati a tutto questo è un altro paio di maniche.