Lunedì 15 giugno 2020: è una data che, se forse non entrerà nella storia, di certo resterà a lungo nella memoria di chi lavora in ambito teatrale. A partire da quel giorno infatti, i teatri (insieme a cinema e spazi da concerti) potranno riaprire le loro porte dopo circa tre mesi di chiusura totale forzata. Tre mesi senza prove, senza spettacoli, senza laboratori. Tre mesi lontani dal palcoscenico e, soprattutto, dalla platea.
Tra i tanti protagonisti della cultura colpiti dal blocco del Coronavirus, il mondo del teatro rappresenta un caso particolare. Scriveva Jerzy Grotowski che “il teatro può esistere senza trucco, costumi e scenografie appositi, senza unospazio scenico separato (il palcoscenico), senza gli effetti di luce e suono ecc. Non può esistere senza la relazione con lo spettatore in una comunione percettiva, diretta.”
Nella restrizioni imposte dalla quarantena, invece, il teatro si è visto privare proprio della sua componente più essenziale: l’incontro fisico con il pubblico. Un duro colpo per un settore che già di per sé è in crisi, a causa di un sistema che non sembra disposto a riconoscerne e valorizzarne il ruolo fondamentale di supporto allo sviluppo della società.
Il teatro è vivo, il teatro è resistenza
“Là dove qualcuno resiste senza speranza, è forse là che inizia la storia umana e la bellezza dell’uomo” (G. Ritsos): nonostante il fermo, il teatro è vivo. Perché il teatro è (anche) resistenza. Costretti dietro un tendone chiuso e sotto faretti spenti, attori, registi, direttori teatrali scalpitano per tornare sul palco, fedeli all’identità di una forma creativa che non smette mai di interrogarsi sul proprio posto nel mondo e sul rapporto con il pubblico. Da questo “scalpitio” dietro le quinte è nato il progetto Confronti – Progettare il teatro di domani, da un’idea di Giacomo Zito e Francesco Migliaccio: una serie di videoconferenze nelle quali nomi di prestigio del settore si confrontano per progettare insieme un nuovo teatro a partire da questo momento di emergenza. Sono conversazioni informali, e improvvisate, in cui emerge tutta la forza comunicativa, il desiderio di ripartenza e anche la rabbia di chi il teatro lo fa e lo ama davvero, e non accetta compromessi per una ripresa.
Tra i partecipanti, protagonisti del settore da tutta Europa: oltre all’attore Francesco Migliaccio, troviamo Veronica Cruciani, regista ed ex direttore artistico del Teatro Biblioteca Quarticciolo, Paola Donati, direttrice Fondazione Teatro Due di Parma, Franco Però, regista e direttore artistico Teatro Friuli Venezia Giulia, Elisabetta Pozzi, attrice e regista. Poi ancora, Gian Mario Bandera, direttore del Teatro Stabile di Brescia, Ruth Heynen, direttore artistico del teatro di prosa Teatro Cottbus in Germania, Dominique Pitoiset, regista e direttore del Teatro Dijon in Francia, e infine Daniele Russo, attore, regista e co-direttore del Teatro Bellini di Napoli.
L’importanza della comunità e della fisicità
Con le dovute differenze nazionali, il teatro in tutta Europa sta vivendo un momento di stasi con poche prospettive di ripartenza. Dall’Italia, alla Francia, alla Germania, nei “Confronti” si individuano alcuni bisogni comuni: riconoscere il valore del teatro, tutelarne il capitale umano, ripensare i programmi. Con un unico grande desiderio: reagire.
Le riflessioni partono dalla considerazione che il pubblico ha bisogno del teatro per non perdere il senso della socialità, elemento fondante del vivere civile. Difficile però mantenere vivo il dialogo tra la parola teatrale e lo spettatore, in periodo di “distanziamento sociale”: il teatro è infatti la fisicità di uno spettacolo dal vivo, costantemente soggetto a imprevisti e non riproducibile. Ogni rappresentazione teatrale, anche dello stesso pezzo, è unica: una caratteristica che tra le forme creative riscontriamo solo nel teatro. In questo senso, i mezzi di riproduzione digitale (chiamati in causa da qualcuno per sopperire alle limitazioni imposte ai palcoscenici) possono fornire un supporto, ma in nessun modo possono sostituire il teatro.
Ma la crisi del teatro, come si diceva, non ha avuto inizio col Coronavirus. La crisi del teatro è in realtà la crisi dei riti comunitari, che oggi è stata semplicemente portata all’estremo. A emergenza finita, il teatro dovrà dunque tornare non “come prima”, ma meglio di prima, perché dal 15 giugno andare a teatro, con mascherina, distanza di sicurezza ecc., significherà letteralmente rischiare la vita.
Produzione di pensiero per lo sviluppo di una società più consapevole
Eppure, il teatro la vita può salvarla: perché produce pensiero e porta a riflettere sulla realtà. È essenziale dunque che il teatro sfrutti questo momento drammatico per comunicare ancor più questa sua autenticità, e che lo faccia con unità di intenti, perché il pubblico amico non diventi un “inconsapevole nemico”. Nella parole dei nostri interlocutori, l’esperienza della quarantena diventa dunque l’occasione di sperimentare, di far sentire che il teatro smuove le menti, e la sua opera può essere utile anche ad altre categorie.
Non sappiamo esattamente cosa succederà dopo il 15 giugno e quante persone quel giorno si presenteranno agli ingressi dei teatri. Sappiamo però che lo slancio creativo, la vocazione alla resistenza e alla produzione di pensiero del teatro sono di ispirazione per chiunque (come noi) difenda il valore educativo dell’intrattenimento, e anche con l’intrattenimento voglia contribuire alla crescita di una società più consapevole. Proprio in questo, anzi, individuiamo i nostri valori aziendali. Una posizione che vale la pena sostenere sempre, e non solo nell’emergenza.
Quindi, il 15 giugno più che mai: viva il teatro!